12Me – La violenza alle donne tra ius corrigendi e

offesa all’onore della famiglia

Perugia, Archivio di Stato, Comune di Perugia, Capitano del Popolo, reg. 75-4, c. 12v (29 lug. 1329)

Domina Angnolella del fu Cenni di Porta Eburnea e parrocchia di San Giacomo accusa Niccolò Taduccioli, di porta San Pietro e parrocchia San Paolo di averla insultata, aggredita e di averla violentata. Il procedimento si chiude con l’assoluzione dell’imputato tramite instrumentum concordie

La violenza contro le donne era molto diffusa nel Medioevo, compresa la violenza familiare imputabile al diritto del marito di ‘correggere’ la moglie per garantire la sua onorabilità, rispetto alla quale l’adulterio era valutato come colpa molto grave, paragonabile quasi allo stupro, il più comune e ricorrente dei reati legati alla sessualità.

Nel Medioevo sono documentate varie tipologie di violenza contro le donne, da quella che si consumava spesso tra le pareti domestiche all’altra finalizzata allo stupro imputabile a estranei e coinvolgente l’onore della famiglia e lo status della donna aggredita. Nel primo caso tutto dipendeva dallo ius corrigendi applicato insindacabilmente dal capofamiglia nella sua qualità di marito nei confronti della moglie, di padre nei confronti dei figli e figlie, di padrone nei confronti delle domestiche. Lo scopo principale era quello di preservare la ‘buona fama’ della moglie, che era patrimonio della famiglia, ma anche della comunità in cui la donna viveva e il marito operava, e la normativa ne era garanzia, punendo la donna nel caso di adulterio molto più severamente rispetto all’uomo.

Ma il più ricorrente dei reati a danno delle donne era certamente lo stupro, un reato di carattere sessuale, talvolta nella normativa abbinato all’adulterio e al rapimento. La preoccupazione principale non riguardava tanto la violenza subìta dalla donna quanto l’offesa arrecata alla famiglia, tant’è che nei procedimenti accusatori si dibatteva principalmente la condizione sociale della donna violentata e la sua reputazione, oltre alla volontarietà dell’atto e alla varietà delle pene, spesso pecuniarie, talvolta personali (pena capitale), evitabili attraverso opportuni matrimoni riparatori.

Maria Grazia Nico


17Mo – «Con grande scandalo della città»
Violenza e disciplina contro le donne nella prima età moderna

  1. Cronaca nera
    1. Clizia di Fiorenzo

Una giovanissima muore dopo giorni di agonia. La tragica storia narrata dalle Ephemerides Perusinae di Lancellotti del XVII secolo.

Nel novembre del 1622, la città è sconvolta dalla lenta agonia di una giovane fanciulla, Clizia di Fiorenzo, ricoverata in fin di vita presso la Compagnia della Morte, cui è stata affidata durante le indagini svolte dal governatore perugino che ha accusato i familiari di tentato omicidio. Rimasta incinta in circostanze sconosciute, la giovane orfana viveva affidata allo zio e ai cugini, e per non vivere nella vergogna del disonore, si suicida ingerendo “acquaforte”, come racconta Lancellotti nella sua raccolta “Ephemerides Perusinae” dove sono contenuti numerosi fatti di cronaca del XVII secolo.

  1. La “Malacucina”

La tragica condizione di un quartiere di degrado, dove le donne sono costrette a subire le peggiori violenze sotto lo sguardo indifferente delle istituzioni.

“Dicto luoco pubblico del bordello” il piccolo quartiere della Malacucina recludeva la popolazione femminile esposta al meretricio. Disciplinata da una lunga serie di normative locali, che prevedevano l’impossibilità per le prostitute di poter varcare i confini del quartiere ad eccezione del sabato. Costrette dai propri clienti e aguzzini a subire le peggiori violenze, venivano di sovente derubate: la violenza contro le donne residenti nel “castelletto” era lecita ed esonerata da condanne fatta eccezione per i casi di gravissimi danni fisici o di morte.

  1. Morti sospette

La travagliata storia di Clemenzia Patumi e delle sue figlie viene ricostruita attraverso le carte e gli interrogatori di un processo del 1676.

Nel 1676, le sorelle Giacinta e Margherita Cugini, figlie di Clemenzia Patumi e di Pietro Paolo Cugini, intraprendono l’una contro l’altra una causa legata all’eredità materna. Clemenzia è stata ritrovata morta nella casa dove viveva sola, nella parrocchia di santa Croce sopra il Fosso, in porta santa Susanna, da poco tempo, rientrata a Perugia dopo anni di duro lavoro a Firenze, dove era a servizio.

Clemenzia era fuggita dal marito dopo anni di restrizioni e violenze subite. Al rientro della donna a Perugia, il Patumi sarebbe tornato a cercarla, dopo venticinque anni di lontananza, per impedirle di redigere il testamento secondo le proprie volontà: lasciare l’eredità alle figlie e alla compagnia dei Carmelitani Scalzi. Dopo l’incontro, Clemenzia era stata ritrovata priva di vita.

  1. Aggressioni contro le donne e femminicidi

I casi di femminicidio e di violenza di genere nel corso del Seicento a Perugia svelano le storie di donne vittime della violenza dell’uomo.

Il 4 maggio 1612, ai piedi del Monte Tezio, nel borgo di san Lorenzo alla Rabatta, Francesco Ercolani uccide turpemente, in mezzo alla strada maestra, Eusebia Nicolai.

Il 22 luglio 1613, Giovan Battista Ubaldi commissiona il figlio Silvestro di uccidere le due sorelle monache a San Quirico.

Il 7 marzo 1613, Ottaviano Leoncini uccide Giovanna, vedova di Alessandro Petrucci

L’8 luglio 1613, nel pieno centro di Perugia, Federico Giorgetti uccide la moglie, Pentesilea Ferri, ritenuta dal marito colpevole di fatti non specificati al governatore durante il processo: dal popolo la donna era ritenuta completamente onesta.

Il 26 luglio 1614 Cleopatra Montanara, moglie di Lorenzo Sinibaldi, celebre per la bellezza fra le donne perugine, muore per le ferite provocatele dal fratello Alessandro

24-25 settembre 1620, il conciapelli Francesco, dopo aver sparato a Giovanni Antonio, uccide la sorella a mani nude.

Il 26 luglio alle “Fonti Nuove”, Lucrezia di Lorenzo viene assassinata da un fabbro di nome Giovanni

14 marzo 1624, a Papiano, un castello a nove miglia da Perugia, il sacerdote Annibale di Francesco e il fratello Domenico uccidono le tre sorelle Elisabetta, Marzia e Francesca. La maggiore, Ludovica, si salva nascondendosi in una “chiavica” e fuggendo denuncia l’accaduto alle autorità. Posta sotto la custodia del vescovo Napoleone Comitoli, gli assassini restano latitanti.

Dicembre 1627, Susanna Eugenia, a Badiola in porta san Pietro, viene ritrovata uccisa. La donna era ritenuta donna pia e santa, conduceva la propria vita secondo la regola delle monache di casa.

Il 5 ottobre 1628, Laura di Clemente subisce uno stupro da parte di un perugino di nome Marco. Il padre della giovane, per vendicarne l’onore, sfida l’aggressore e perde la vita. L’assassino è consegnato alla giustizia.

14 ottobre 1630, le autorità sono alla ricerca di Virginia Luzi da Cortona, scomparsa durante il viaggio che la conduceva a Perugia.

Il 19 e il 21 febbraio 1600 nella piazza Grande di Perugia viene eseguita la pena capitale contro Porzia Corradi e il suo amante, Astorre Coppoli. L’esecuzione avviene pubblicamente: la celebre storia perugina è narrata nel libro “La bella in mano al boia. Una storia inedita di Perugia nel Seicento”, scritto da Uguccione Ranieri nel 1965.


20Co – Il dna è nella cultura

Muoiono di piombo, di coltello, di spranghe , di martelli, di cacciavite, di calci, di pugni. Strozzate con le mani , con cinte, corde, sciarpe, cavi elettrici. Soffocate da cuscini, asciugamani, buste di plastica, nastri da pacchi. Bruciate o smembrate o fatte scomparire , quando serve. A volte la messa in scena di incidenti domestici. Vengono uccise per ragioni che hanno a che fare con la tradizione e il costume, con la cultura corrente in quel momento. Con qualche discontinuità e poche variabili. Fino  agli anni Settanta del secolo scorso non si cercano  moventi in situazioni che sconfinino  oltre la gelosia o il tradimento o il discredito sociale. Il sangue della donna lava via  un’onta subita perché onta ci dove essere per forza. Altrimenti, quale altra spiegazione? All’assassino il  sangue, il suo,  è andato alla testa  per un torto subìto. Genesi considerata endemica che  chiude  alla svelta il fascicolo di un’indagine standard. Al processo si discuterà di  attenuanti. Questo la cronaca . Meno di un paio di decenni e nel linguaggio dei modelli interpretativi qualcosa lentamente cambia. Termini  e modi di dire come raptus, impeto, reazione inconsulta, omicidio a caldo  cominciano ad assumere  pesi, considerazioni, valutazioni , anche processuali, diverse. L’uso di nuove parole  è lo specchio di un nuovo atteggiamento.  Perché nell’uomo che uccide adesso si legge  un problema più complicato, più intricato, meno evidente. Deve ristabilire una regola, : quella donna, che è mia, ora che  l’ho ammazzata non potrà essere di altri. Non gli è andato all’improvviso il sangue alla testa quando spara o accoltella : no, ricostruzioni più attente ora ci dicono che spesso, la percentuale è significativamente molto alta, l’azione è stata studiata , organizzata, insomma premeditata. Come l’azione di un  killer: altro che pazzia improvvisa, ricostruzione difensiva buona per lucrare sconti di pena  e fatta propria da  tante sentenze. C’è , insomma, una spinta a disincagliarsi da uno schema sbagliato e ancorato a una immutabilità secolare. Quantomeno per affinare la diagnosi di una  malattia che sembra incattivirsi  di generazione in generazione. Proprietà, dominio, esclusività, controllo, persecuzione, sono il nucleo di un crimine commesso su una donna perché donna. Evidenziato questo  nucleo ecco comparire  nel lessico comune   un termine mai usato prima , quello di  “femminicidio”. “ Possesso” dunque  è il palindromo tanto di  violenza di genere che di femminicidio. Un fenomeno con più sfumature, tragiche e complesse, contro il quale si infrangono i buoni propositi della prevenzione. Una pandemia dentro la nostra società causata da più  virus  che fino   all’altro ieri erano di rarissima individuazione: non c’erano gli strumenti e  le risorse intellettuali per farlo. Gli stessi virus che con il trascorrere del tempo sono diventati più evidenti  sotto i diversi microscopi sociali , da qualche tempo a questa parte si manifestano con varianti ancora più terrificanti. Una prima variante: quasi a voler prolungare la punizione inflitta con la morte l’uomo toglie la vita anche ai figli della donna uccisa. Figli  quasi sempre nati dalla relazione con colui che uccide. Una seconda variante: con la stessa frequenza in crescendo della prima, in questa manifestazione del contagio,  l’ultimo colpo l’assassino lo scarica su sé stesso. Estremo pentimento, lucida decisione di cancellare tutto e tutti  o paura delle conseguenze giudiziarie del gesto omicidiario? Chi può rispondere?  La negazione della libertà di pensarla in un’altra maniera , di scegliersi un partner diverso , di rifarsi una vita, di cambiare lo svolgimento della propria esistenza  equivale all’affermazione  di quell’egemonia  totalizzante  attuata quotidianamente dentro e fuori le mura domestiche che si manifesta con l’esplosione ,nelle più diverse forme, di quei comportamenti che, per essere sintetici,  chiamiamo violenza di genere. Manifestazioni  che vanno fermate prima che fermentino – come genesi comune  che si sta consolidando nelle sue drammatiche repliche quasi quotidiane- in forme sempre più gravi, feroci, disumane , irreparabili, definitive. Le leggi in genere rispecchiano la cultura del paese che le produce. Nel nostro  ordinamento,  fino all’agosto  1981 in Italia  è stato  in vigore  l’articolo 587 del codice penale che stabiliva:” Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’ onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella “. Il delitto d’onore  come attenuante e mezzo per lucrare condanne a pene miti è sopravvissuto all’abolizione del reato di adulterio, all’approvazione della legge sul divorzio, al nuovo diritto di famiglia. Ecco, la cultura, si diceva. Qualche scoria di questo passato recente, di quell’articolo, il 587 del codice Rocco, probabilmente   ce la portiamo ancora addosso.   

Alvaro Fiorucci